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Che ci sia una chimica nascosta nel feeling che unisce due individui, sembra ormai fuori di dubbio, almeno tra gli addetti ai lavori, ovvero innamorati e scienziati. L’amore è diventato oggetto di studio da parte di psicologi e neurobiologi, addirittura per certi versi assimilabile ad un disturbo dell’umore o, nei casi più gravi, alla sindrome di una malattia mentale. Ansia, sbalzi di umore, inappetenza, sudorazioni improvvise, respiro affannoso, tachicardia, sensazione di vuoto allo stomaco, insonnia, pensieri ossessivi: tutto un corredo di sintomi che segnano la prima fase dell’amore. Per studiare che cosa li scatena è necessario trovare dei soggetti disposti a fare da cavia, come topolini da laboratorio. Tra i fattori implicati nell’innamoramento - che sono diversi, tra cui ormoni e neurotrasmettitori - spicca il ruolo dell’NGF, il fattore di crescita nervosa, noto per le ricerche di Rita Levi Montalcini, agli inizi degli anni Cinquanta, sulla rigenerazione delle fibre nervose. A distanza di anni gli studi sull’NGF hanno dimostrato che si tratta di una molecola estremamente versatile, non solo una neurotrofina, dotata di attività su popolazioni di cellule dei tre sistemi nervoso-endocrino-immunitario, e inserita quindi nella categoria più ampia di sostanze umorali (citochine sintetizzate) rilasciate dalle cellule appartenenti ai sistemi della rete omeostatica. Ma quale ruolo gioca negli innamorati? “Se l’innamoramento fosse una malattia, l’NGF sarebbe il suo marcatore - ipotizza Pierluigi Politi, ricercatore dell’Università di Pavia presso l’Interdipartimental Center for Research in Molecular Medicine (CIRMC) - quando è elevato “l’infiammazione” è in corso, poi rientra nella norma. Dopo circa un anno l’amore passa dalla fase acuta a quella cronica”. Il gruppo di ricerca del CIRMC ha misurato i livelli plasmatici di alcune neurotrofine come NGF, BDNF, NT-3 e NT-4, su un totale di 58 volontari, uomini e donne, dai 18 ai 31 anni che si erano innamorati da poco, comparandoli poi con quelli di due gruppi di controllo (un gruppo di single e un altro formato da coppie di lunga data). Il livello di NGF era significativamente più elevato nei soggetti “in love” rispetto agli altri. Inoltre esisteva una correlazione positiva tra i livelli dell’NGF e l’intensità dell’amore romantico (rilevata con una apposita scala di passionalità). Nessuna differenza riguardava le concentrazioni degli altri fattori neutrofici. Dopo poco più di un anno, nella maggioranza degli individui che avevano mantenuto la relazione, non si riscontrava più lo stato emotivo e mentale riferito all’inizio dell’innamoramento e i livelli di NGF diventavano indistinguibili da quelli dei gruppi di controllo. Naturalmente occorreranno studi ulteriori per chiarire come agisce l’NGF. Ma, in questa corsa a comprendere la tempesta chimica che sconvolge la razionalità durante l’innamoramento, e nel coinvolgimento emotivo che si instaura tra i partner, si tende già da ora a vedere una strategia evolutiva che dura giusto quel lasso di tempo necessario ad allacciare una relazione e a mettere al mondo un bambino. Siamo molto lontani dalla visione assolutamente gratuita e libera da vincoli di cui parlava il celebre psicoanalista Erich Fromm: “Neppure l’amore ha scopo, al contrario di quanto dicono molti, secondo i quali scopo dell’amore è di condurre alla soddisfazione sessuale o al matrimonio, fare figli e costruirsi una vita borghesemente normale. Ma è proprio per questo che l’amore anche oggi è tanto raro - l’amore senza scopo, quello in cui tutto ciò che è importante è l’atto dell’amore in sé, l’autoespressione dell’individuo, la manifestazione delle sue facoltà” (Erich Fromm, L’amore per la vita, Mondadori, 1984). |
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